Stanley Kubrick, fotografo sul set di 'Shining' - 1980.
"Tesoro, luce della mia vita. Non ti farò niente. Solo che devi lasciarmi finire la frase. Ho detto che non ti farò niente. Soltanto quella testa te la spacco in due! Quella tua testolina te la faccio a pezzi! "
Era del tutto necessario porre fine a un concetto sbagliato, sbagliato perché inadeguato.
Esistono oggetti, persone, situazioni che non sono ben inserite nel proprio contesto e da questo vengono allontanate e sbalzate.
Può anche capitare di no.
In questo caso interviene la distruzione momentanea, veloce ed efficace, nessun'altra proposta se non la demolizione, fine a sè stessa.
Non esiste piano B.
Durante questo tipo di operazioni si è consapevoli della precarietà e della situazione di stallo in cui viene gettato l'universo prescelto, nel caso esponiamone tre: lavoro, famiglia, amicizia.
Siamo già in un universo differente nel momento in cui stiamo distruggendo ciò che lo compone.
La distruzione è infatti costruzione, è spazio in cui edificare, è un modo di pensare.
In una sala di specchi non c'è modo di voltare le spalle a te stesso.
H.Miller
Niente di personale Daniel, ma le
tue foto non mi convincono.
Nel Marzo 2012 Daniel Kukla ha vinto una residenza d’artista sponsorizzata
dall’Ente per i Parchi degli Stati Uniti presso il Joshua Tree National Park in California. Nasce da questa esperienza il
progetto fotografico The Edge Effect,
la cui traduzione in gergo ecologico è l’effetto margine che scaturisce dallo
scontro-incontro di ecotoni[1]…leggete
pantoni? Deformazione professio-personale perché ora parliamo proprio di
ecotoni, in altre parole quegli ambienti di transizione tra due ecosistemi: si
tratta di superfici in cui si osserva un livello di biodiversità elevatissimo,
questi sono l’anello di congiunzione tra sistemi molto diversi tra loro.Sono una cristallizzazione delle
fasi di transizione.
Proprio in queste zone di
margine risaltano le proprietà distintive delle diverse parti tanto da creare
un effetto straniante: questo progetto fotografico intende disarmarci,
ingannare il nostro occhio per portarci a conclusioni biodiverse.
Il fotografo americano riesce a far
riflettere queste superfici sulla stessa immagine per cui una porzione di
sguardo, che subentra sulle punte dei piedi e va a posizionarsi al centro della
tela, risulta una crepa della visione. Come se fosse stato possibile, per pochi
istanti, sovrapporre il dietro al davanti, con un trucco d’artista ma
soprattutto con un cavalletto d’artista.
Dopo un Baccellierato in Scienze ed un
programma annuale presso il centro internazionale di fotografia di New York (specializzandosi
in fotogiornalismo e fotografia documentaria), possiamo delineare il profilo biofotografico di Daniel Kukla come un professionista
ai margini dell’arte, appartenente a quella sacca della fotografia
documentaristica in cui l’arte stessa arriccia le fotografie alla scienza e quest’ultima
dà maggior validità ed al contempo invalida le ricerche artistiche, secondo un
metodo di verifiche ed ipotesi.
Queste immagini sono figlie di
una grande intuizione: la sovrapposizione sempre straniante di due visioni,
opposte nella realtà, e la fusione di questi diversi aspetti in un unico piano.
Infatti, mentre le pubblicità di oggi ci mostrano come sia possibile scattare
una foto con il nostro iPhone
semplicemente ruotando il telefonino attorno al nostro corpo (ottenendo così una
panoramica circolare), Kukla invade la nostra porzione di sguardo con un
inaspettato riflesso; questa particolare porzione poggia su un cavalletto
d’artista come fosse un dipinto mutevole abbandonato nel parco nazionale.
In questo caso i contrasti
sembrano dipingere immagini cromatiche in forte opposizione con il paesaggio
retrostante: sono cieli in angolazione, nuvole con riflessi leggeri, volte
celesti circondate da radure.
C’è qualcosa all’interno di
queste immagini che non mi convince, il mio stupore iniziale non era altro che
disorientamento, mi risultava difficile capire la composizione dell’immagine, finché, svelato il
trucco della visione virtuale, qualcosa si è dissolto.
Ed è la sensazione che queste
immagini parlino di un mondo ma in maniera troppo estetizzante. Queste
fotografie si trasformano in un linguaggio (se mai fosse possibile, sarebbe un
linguaggio internazionale) semplice ma probabilmente troppo superficiale, i
giochi di sovrapposizione tra virtuale e reale risultano interessanti tuttavia
troppo vicini ad una ricerca cromatica ed armonica in stile National
Geographic.
Le fotografie danno l’idea di
trovarsi in un set cinematografico, sono immagini molto limpide e prive di
rumore di fondo. Ho cercato tanto e non ho trovato il mio punctum[2] o meglio
il punctum non ha trovato me; queste
immagini sembrano impregnate di studium, portano
lo spettatore ad informarsi per gestire questo genere di figure, l’importanza
del titolo e la collocazione spazio temporale degli scatti. Queste immagini
sono un approfondimento; eppure non toccano il mio profondo, lasciano una
sensazione ben lontana dalle ricerche (una di queste sempre con l’immagine
riflessa degli specchi) di Robert Smithson, artista della land art, totalmente sedotto dai grandi processi di trasformazione
naturale, fossero questi fluidi o materici, caotici e casuali. Si parla però
degli anni ’70 in cui si pensava ancora di poter lasciare una traccia umana
rimodellando il paesaggio, osservando e modificando, in una presa di coscienza
dell’uomo sull’ordine naturale e sulle sue trasformazioni.
Daniel, manca qualcosa, ma non
so cosa.
[1] Dal greco oikos (casa, ambiente) e tonos (tensione)
[2] All’interno della Camera Chiara (1980) Roland Barthes identifica due modi che ha lo spectator di fruire una fotografia:
Lo studium è l’aspetto razionale e si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che la foto gli fornisce (costumi, usi, aspetti).
Il punctum, è invece l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto.
Non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il
particolare risalga da solo alla coscienza affettiva.
Roland Barthes
Non ho intenzione di annoiarvi malamente commentando le fotografie dei vostri quotidiani, non ho intenzione di citare eventi storici di cui avete le orecchie e gli occhi pieni.
Non ne ho intenzione ma lo farò.
Ciò che ha portato la primavera araba ad assomigliare ad un autunno improvviso non è di mia competenza diretta, ma il vento freddo che ha portato con sé ricorda tante correnti d’aria che ho vissuto in soli 25 anni ed ancora fatico a commentare: l’apparenza di una libertà che pare aver scatenato ciò che separava la civiltà dal fondamentalismo e l’occupazione friendly(quale occupazione può definirsi friendly?) dall’oppressione sanguinaria. Ciò che voglio invece affrontare di questa notizia è il suo trattamento estetico e le fotografie che ho osservato sulle prime pagine dei quotidiani: un uomo apparentemente sveglio ma frastornato vestito con unafruit bianca e un paio di pantaloni eleganti, sorretti da una cintura che pare di pelle. La maglietta bianca scopre un torace bianco, più pallido dell’incarnato del soggetto che rimanda al drappo pudico inserito nelle pale d’altare e ricorda l’utilizzo di questo per il trasporto del corpo dei martiri (ma nella fotografia ha perso il suo candido colore iniziale e tende ad un grigio usurato). Non abbiamo davanti a noi la figura di un bracciante o un lavoratore stagionale bensì un uomo che probabilmente ha preso il sole unicamente in viso perché porta camicie o completi. L’immagine mi colpisce per due particolari: il colore violaceo delle labbra pare espandersi dalle medesime verso il viso, come una macchia di colore, tanto da rendere l’espressione del volto particolarmente fastidiosa da fissare, in aggiunta, una ciocca di capelli, nell’immagine non ingigantita delle prime pagine di giornale, inganna tanto da far pensare ad un colpo inferto alla testa mentre in realtà è solo parte della pettinatura che è calata sul volto. L’uomo che lo trasporta, ed è lo stesso che riconosciamo in più fotografie, regge con la bocca un vecchio modello di telefonino mentre tenta, plausibilmente (o forse l’impressione è sbagliata), di portare il corpo lontano dal pericolo. Questa persona ha un tipico abbigliamento che noi, italioti predisposti ad una certa capacità stilistica genetica, ereditata da anni di alta moda, riconosciamo: l’aiutante indossa un’improbabile maglietta di una squadra sportiva calcistica ed un paio di pantaloni che difficilmente si coordinano, si tratta di bermuda verdi a righe bianche abbinati a un’infradito bianca. Svettano in primo e secondo piano le gambe di altri aiutanti, tutte vestono jeans ed i piedi che possiamo scrutare calzano ciabatte di ogni tipo e pantofole: non siamo sicuramente in presenza di un abbigliamento anti sommossa o protettivo. Terminando, noto che la base della fotografia è un pavimento in semplici mattoni autobloccanti del tutto identico a quello del mio cortile.
È un’immagine che parla direttamente al nostro inconscio e crea una sorta di“tuttialriparo” immediato: quello che mi accade nell’immediato, dopo una visione di questo tipo, è una ricerca disperata, mi scopro a rovistare tra gli scatoloni, rovescio le buste ed i quaderni, apro i cassetti e le ante degli armadi, sbuffo tra la polvere.
Devo forzatamente trovare qualcosa che mi renda questa visione accettabile. Ricordo nitide le pagine scritte da Susan Sontag riguardo alla prima visione delle fotografie-testimonianza dell’Olocausto: la sua vita sarebbe cambiata per sempre.
Molte immagini hanno cambiato la mia vita: le prime immagini pornografiche nascoste sotto le riviste di gossip dal giornalaio di fiducia, le immagini dei libri di storia sfogliate durante le spiegazioni dell’insegnante, i viaggi della memoria ed il Museo Cervi, i telegiornali ed i quotidiani degli anni di piombo, senza tanti vezzi e pudicizie, le fotografie di guerra e i reportage dell’estrema povertà, i malati di Aids di Nan Goldin. Ciò che ho guadagnato col tempo è un adattamento ed un allenamento della visione: quella t-shirt bianca, quel drappo cinereo, le braccia tese ed il gesto del trasporto segnano il culmine della tensione e dell’incertezza, il dramma si svolge e prosegue mentre l’immagine diventa già statica, prelevata dal flusso come fosse un pesce estratto dal fiume.
Se la fotografia vuole essere un messaggio, ciò che mi dice è duplice e impenetrabile, nonostante questa immagine mi faccia credere di favorirmi nella comprensione, quello che veramente accade è una coscienza estetica ed un distacco emotivo. “Ma le fotografie non spiegano: constatano.”[1] Non so nulla di questa fotografia trasmessa a tutti i media internazionali, questa immagine non sintetizza unicamente la tensione mediorientale e la violenza che ne è alla base, ma ha anche una somiglianza inconscia con Il trasporto del Cristo morto di Raffaello. Il corpo centrale della pala d’altare è di forte impatto drammatico, ed il tema stesso lo è, questo pathos prende vita nello sforzo fisico del trasporto di un corpo pesante e profondamente carnale e terreno. Ho paura delle fotografie perché hanno, alla pari dei quadri, una composizione seducente, tanto – e a mio malgrado – da essere capaci di abbellire ogni cosa.
Anche il terrore puro e le sue gesta.
Raffaello Sanzio, Deposizione di Cristo, 1507, Olio su tavola, cm 174,5x178,5
COURTESY GALLERIA BORGHESE
Chris Stevens, l’ambasciatore americano in Libia ucciso l’11 settembre scorso
Articolo pubblicato su The ArtShip #9 Ottobre 2012
Alla stessa maniera dello scrittore Georges Perec mi sono seduta di fronte al computer ed ho osservato per più di tre giorni le fotografie delle vacanze degli utenti, amici, pseudo conoscenti e personaggi su facebook, twitter ed instagram.
Ho aumentato l’offerta della ricerca interessandomi anche a pinterest, una novità delle bacheche di condivisione del tutto intuitiva creata nell’ottobre 2011 e già nelle top ten di tutto il mondo.
Proprio questo social network si propone come sostituto delle porte e delle pareti delle nostre camere da adolescenti, le immagini sono appiccicate sulla bacheca virtuale in un susseguirsi di messa a fuoco dell’occhio attento del visitatore. Non posso, come storica dell’arte, far altro che sfogliare la mia bacheca mentale (organica e non informatica) ed estrarre il grande atlante di Aby Warburg, un immenso ed infinito -poiché pensato come tale- atlante di immagini dell’umanità, legate fra sé dall’energia creativa umana: parliamo delle basi della cultura europea e della sua stessa memoria.
Fu infatti Mnemosyne[1] il nome di questo ambizioso progetto presentato nel 1929 presso la Biblioteca Hertziana di Roma. “L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un primordiale potere energetico di evocazione, in forza della loro vitalità espressiva le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere riattivata e scaricata. Nell’Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di energia e provoca lo spettatore a innescare un processo interpretativo aperto: la parola all’immagine.”[2] L’utente ignaro non sa di partecipare ad un progetto ambizioso e storico-culturale, queste immagini, queste scelte, questi cinguettii virtuali sono la nostra scrittura nelle caverne: non bisogna avere alcun tipo di assolutismo nella distinzione tra ciò che è funzione e ciò che è struttura in una società mobile ed aperta come la nostra.
Per questo la fotografia (ed in questo caso non sto parlando del mezzo ma della funzione) controbatte alla stessa domanda da ormai due secoli: rappresentarci, mostrare chi siamo e cosa facciamo, registrare il nostro tempo nello spazio, miniaturizzare i nostri momenti e consegnarceli come feticcio. Osservando le fotografie pubblicate sui maggiori social network e soffrendo di miopia verso l’esagerato fenomeno del paesaggismo da immagine da cartolina, ho notato una corrente verso la quale molti utenti scorrono o meglio vanno ad abbeverarsi: l’immagine intimista, il reperto trovato in strada, il muro sbriciolato, il colore dello smalto sui piedi, la linea di un cappello e l’ombra che ne consegue.
Un’ondata (per continuare la metafora) d’immagini che non avremmo mai mostrato nel buio del nostro salotto assieme alle diapositive delle vacanze davanti agli amici di sempre eppure oggi sono queste le immagini alle quali siamo sottoposti, pur non ritenendoci gli amici di sempre o addirittura non conoscendoci.
Si fa banchetto di sé, ci si aggrappa al click del fotofonino per fermare ciò che resta del tempo, per catturare il respiro delle cose, come un flaneur del ventunesimo secolo attento a ciò che succede quando non succede (apparentemente) nulla. Nel 1975 Georges Perec, grandioso esponente dell’OuLiPo.[3], pubblicò “Tentativo d’ esaurimento di un luogo parigino” questo libricino ha la pretesa di essere una registrazione di ciò che i suoi occhi hanno visto durante quattro giorni passati tra place Saint-Sulpice e il tavolino di un bar; più che uno scorrere di immagini questo libro costringe a pensare ad un tentativo di aggrapparsi alle lancette dell’orologio con tutta la forza che si ha, un tentativo di combattere questo fluire con uno scorrere differente, quello delle parole.
Ma già il titolo è una premonizione: questo è solo un tentativo poiché pare impossibile esaurire uno spazio nella sua fisicità e temporalità. Noto oggi nelle fotografie intimiste, accennate in precedenza, questa stessa rinuncia a priori di una visione più larga e meno avvolgente, una rinuncia che non classifica più “ciò che succede quando non succede nulla” come un’eccezione, anzi, di questo nulla fa tesoro e proposta verso una minuzia ed una tensione tipica della visione attuale.
Contro ogni critica ed involuzione queste nuove generazioni di utenti virtuali, figlie di un marketing senza religione, provate da anni di consumismo di cui essi stessi sono la creazione finale, mostrano una tendenza auto celebrativa e intimista, a sprazzi pubblicitaria e patinata, tendente alle grandi ricerche ora classificate come vintage. Inghiottiti da un vortice di icone, pixel e continue trasformazioni vivono i progressi della scienza con lo stupore e l’adattamento immediato, ogni scoperta viene assimilata e fatta propria: la conoscenza delle strutture ci distanza dalla generazione dei nostri nonni (e spesso già da quella dei nostri genitori) come fossimo colonizzatori rispetto ad un popolo di aborigeni. Ma queste strutture vertono su funzioni e software di vecchissima datazione: le immagini infatti hanno lo stesso potere e la stessa energia delle scritte rupestri ed il loro utilizzo funziona ad oggi come una traccia di sé.
Ed io delle mie vacanze voglio lasciare solo la mia ombra sulle strade di Matera, un calice di vino in piazza a Bologna e qualche vestito appeso al mio armadio: salvo tutto questo sotto la cartella giusta ed il mio atlante per ora è aggiornato.
[1] Nel 1929 tenne alla Biblioteca Hertziana di Roma la conferenza su Mnemosyne, esponendo il progetto di un atlante illustrato, Bilderatlas Mnemosyne, dedicato alle emigrazioni e sopravvivenze delle antiche immagini di divinità nella cultura europea moderna.[2] Tratto da La Rivista di engramma, n.35 agosto–settembre 2004 all 'indirizzo web http://www.engramma.it/engramma_v4/homepage/35/index_atlante.html[3] Acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”.
Esiste un calcolo scientifico della sopportabilità del dolore umano, il dolore della carne e degli organi interni, il dolore della circolazione e dei tessuti connettivi.
Esiste un calcolo balistico dei movimenti di un cuore straziato e dei suoi spostamenti all'interno di un corpo indifeso: la tenuta nelle curve della vita, l'adattamento al tipo di tragitto che si sta seguendo.
Il mio cuore è una macchina, è solo una macchina incidentata.
Esiste un numero ben preciso che calcola la sopportazione delle tipologie di dolori, possiamo classificarli come "dolori alla terza" o "dolori all'ennesima potenza": è la radice quadrata della nostra età disidratata dai numeri primi della nostra vita e dalla somma delle persone che all'oggi ci mancano.
Un calcolo quasi fisico, interstellare, un calcolo rotatorio alternato che non conosce tempo né spazio: un calcolo che non voglio fare.
Eppure amo perdere tempo a schematizzare il dolore, misurandone ampiezza e densità sperando sempre e comunque di galleggiare io (rispetto al resto) in superficie.
Un peso specifico da non sottovalutare: il peso specifico del vuoto.
Il vuoto d'aria che hai, che senti, quando tutti questi calcoli e misurazioni portano il tuo respiro a farsi stretto, serrato, sempre meno frequente poi lento, pare di essere in acqua, abbiamo tutto il tempo che vogliamo per riemergere ed ora siamo nel silenzio, le urla di fuori sembrano echi mostruosi e la visione è quasi annebbiata eppure luminosa.
Il vuoto d'aria che hai quando gli eventi ti colpiscono al fianco come un cazzotto ben assestato, proprio a te che sei pacifista, che non hai mai toccato nessuno, che non sfioreresti nessuno nemmeno con un fiore (presumibilmente di plastica), tocca a te ora sferrare il secondo pugno eppure non puoi più alzarti, è come se ti avessero schiacciato con un macigno a terra, sei ancorato, stai affondando con il tuo scafandro, non si torna più a galla, non si vede la fine.
Il vuoto d'aria che hai, quando ti accorgi che si può andare avanti, sempre in meno, sempre più soli, sempre più offesi e feriti, sempre più cicatrizzati, ed è quella pelle che ora senti dura che ti farà da corazza perché sulle ferite si crea un alone di aridità, di durezza che è anche salvezza, che divora il vuoto e ne modella le sue forme fino a creare un antro tutto per te, un bozzo, una cuccia, una tenda in salotto, un mucchietto di lenzuola in un angolo.
Poi un giorno
l’illuminazione. Sono a prendere un caffè, sola, mi guardo attorno con gli
occhi delle faine incrociate di notte per strada: una ragazza seduta vicino a
me sta riordinando il tavolo in maniera quasi maniacale, tazzina e cucchiaino,
bustina di zucchero inclinata verso destra, tovagliolino del locale con logo
ben in vista; organizza il suo tavolo come un catering da matrimonio.
Ci risiamo.
Per pochi istanti rivedo le scene strepitose di “Qualcosa è cambiato”, mi trovo
a fianco di una giovanissima affetta da disturbo ossessivo - compulsivo, ecco
che ho trovato un’amica.
Invece no.
Semplicemente
si prepara a scattare una fotografia con il suo smartphone.
Se non posti
non esisti.
L’evoluzione
della fotografia con l’arrivo del pixel non sarà il tema di quest’articolo; non
parlerò né di perdita del referente né di sali d’argento tantomeno di falsa
rivoluzione del digitale. Bensì di una rivoluzione ben più importante che sta
cambiando il nostro modo di comunicare e di esistere nel mondo della
condivisione.
Ogni giorno
osservo ragazzi e ragazze scattare fotografie del tutto autoreferenziali dai
loro cellulari: scarpe allacciate, unghie smaltate, smorfie pressoché uguali e
ripetitive, segni di riconoscimento che scorrono come un flusso perpetuo di una
comunicazione fine a se stessa. È una comunicazione immediata, fotografie cometa la cui scia dura i
pochi minuti della condivisione per poi avvolgersi e rinchiudersi in una
cartella - fotografie bacheca – che non verrà più aperta e raggiungerà il
numero di scatti (quasi) infinitamente proporzionale agli eventi effimeri della
nostra quotidianità.
La nuova
condivisione è basata su un culto per la citazione e il richiamo dei grandi
esperimenti fotografici: la polaroid, il vintage/Lomo, la sfocatura lineare o
radiale per una maggiore profondità di campo. L’idea principale è la
trasformazione della realtà visibile ai nostri occhi in un’elaborazione
artistica delle sue parti. Queste fotografie funzionano come un linguaggio elementare
ed appena abbozzato: un richiamo rapido di attenzione, un urlo di breve durata
che si spegne in pochi istanti.
Queste
immagini, dicevamo, hanno un’esistenza passeggera
quanto la scia di una cometa, ma (proprio) gli istanti di visione sono un lampo in una notte serena:
commenti, visualizzazioni, like e
condivisioni. La vita nella rete sociale si trasforma nell’aforisma di Andy Warhol “In
futuro tutti saranno famosi per 15 minuti” ed è il grado zero della condivisione (non
esiste selezione né conservazione di queste immagini se non direttamente nelle
piattaforme dei social network).
Il più
importante programma di photo sharing,
Instagram, compare il 6 ottobre del
2010 ed esattamente un mese fa superava la
soglia dei 50 milioni di utenti, proprio mentre la piattaforma stava per essere acquistata da Facebook. L’immagine di oggi funziona
secondo la nota locuzione latina hic et nunc,
suggerisce la fragilità della nostra contemporaneità, la percezione di uno
spazio ed un tempo non più infiniti.
La sensazione
è quella di scorrere nel presente come da uno scivolo oleato, in cui si aggrappa con le mani a ciò che resta saldo,
ovvero solo la struttura: a quale desiderio risponde questo flusso di immagini
immediatamente condiviso?
Sono
emozioni e desideri della propria intimità: l’ampliamento del raggio, permesso
dalla condivisione e dalla globalizzazione, ci ha condotti ad uno sguardo
intimo ed individualista. In queste immagini, infatti, notiamo ben poco del
reportage bensì un rivolgimento dello scatto opposto: si scatta verso se stessi
e la finestra sul cortile si trasforma in un microscopio puntato sulla nostra
pelle, il nostro mondo organico viene perlustrato ed esposto al pubblico
ludibrio minuto dopo minuto.
Si ottiene in
questo modo una semplificazione dello schema a tre elementi barthesiano: operator, spectator e spectrum si
fondono nell’utente medio del mondo della condivisione.
Ci
inquadriamo, scattiamo e ci osserviamo gettati nel flusso (sempre aggiornato)
del nostro social network: è una
soddisfazione istantanea dell’Ego con la quale non mi specchio più in uno
stagno ma mi affaccio con la mia ingombrante presenza in un mondo dove la mia
stessa immagine sfugge al mio controllo. Come sottolinea MicheleSmargiassi, giornalista e fotocrate, queste immagini non producono più una relazione bensì una dispersione; spieghiamoci meglio, le fotografie assolvono
ancora il loro compito di elaborazione e costruzione del sé ma i veri destinatari
di questo prodotto finale non sono semplici utenti ma persone che io non
conosco direttamente. Scissa dal proprio referente umano la mia immagine vive
di vita propria e diventa ben più visibile del suo referente organico ovvero me
stesso per diventare “veicolo della dispersione entropica di un ego
artificiale”. Nella trasformazione della fotografia da opera a performance
divento l’attore protagonista, travolto dall’ansia della mia società
contemporanea.
Sicuramente
non sbagliano i curatori del Museo Alinari di Firenze nel proporre nell’ultima
stanza del museo della fotografia il primo fotofonino della storia (2001): un Nokia
7650. Da non sottovalutare la data di creazione e la struttura del “reperto”; proprio
Stanley Kubrick nella sua premonizione filmica[1]
donò ai primi ominidi un monolite nero dotato di conoscenza che, nello sviluppo
della pellicola, assumeva differenti valenze: una divinità, un extra –
terrestre, il primo mattone dell’Universo.
Che sia
davvero questo fotofonino l’essenza del nostro Universo?
Nel dubbio posto una foto.
di Claudia Balzani, pubblicato su The Art Ship di Luglio.
Potrei paragonare queste giornate alle volte in cui cantando a squarciagola mi accorgo di aver sbagliato battuta - sarà la strofa dopo oppure no - e ci rimango male, poi borbotto un poco e canto suoni indistinti come un chewing-gum biascicato.
Ci sono giorni in cui non trovo il tempo.
Potrei paragonare questa mancanza alle volte in cui mi affanno indistintamente tra diversi impegni, senza priorità, senza eccezioni e mi rendo conto - solo dopo - che il tempo stesso è un astrazione governata da alcuni parametri /evorreichequestiimpazzissero/ : l'orologio, i genitori, il lavoro, i figli, la scuola, la burocrazia, il sole, le nuvole e forse anche il tempo interiore - ma quello posso governarlo da me, non sempre ma posso.
Ci sono giorni in cui non trovo lo spazio.
Potrei paragonare questa claustrofobia alle volte in cui ho cercato, nell'incontro con una persona, gli spazi più sconfinati del cielo, ho cercato con gli occhi il volo degli aerei e il vento che sposta i confini del bello e brutto tempo; cercavo l'aria che non trovavo in un dialogo, cercavo la finestra dentro alla cantina ed il lucernario dalle soffitte impolverate.
Ci sono giorni in cui trovo che sia inutile non trovare qualcosa.
Potrei paragonare questa sensazione a The nothing song dei Sigur Ros: non ci sono parole comprensibili, non scorre più il tempo (secondo i parametri prima elencati) e lo spazio è dilatato come una pupilla in overdose.
In questi giorni incerti, in preda al dilagare di profezie, tormentati da un tremolio persistente e dal crollo di case, chiese, fabbriche e scuole (la natura non ha riguardo delle differenze sociali) e dal lutto che portiamo ogni giorno, con sgomento, ripetendoci che non è possibile nel 2012 morire in questo modo e ci raccontiamo che "domaniandràmeglio" e sicuramente ci facciamo forza e ci aiutiamo ma la vita a volte (come dice qualcuno) è proprio capace di cacarti in testa, e allora ci scappa una risata -timida- ci guardiamo fissi negli occhi e torniamo seri.
Parliamo veloci noi emilanoromagnoli, siamo un etnia composta, siamo due in uno, come le parole composte bisogna stare attenti con i plurali: il primo termine resta uno il secondo diventa una molteplicità -terremoto/terremoti, noi emiliani abbiamo il compito di essere proprio l'aggettivo portante, l'invariabile portante, il muro portante (ho il punto fisso, lo so).
Proprio in questi giorni o meglio in queste notti ho pensato a cos'è il terremoto nei miei ricordi letterario/mentali/musicali partendo dall'idea di dover addomesticare la paura dell'ignoto parafrasandone le sue parti in un gioco di collegamenti liberi.
Fine anni '90, un libro tanto amato e tanto snobbato: Salman Rushdie (avrei bisogno di un post unicamente dedicato a lui) scrive "La terra sotto i suoi piedi"; un anno dopo Wenders gira, su idea di Bono degli U2, "The million dollar hotel" con Milla Jovovich e Mel Gibson (quando ancora l'attore non era stato arrestato completamente ubriaco alla guida del suo fuoristrada, ancor prima di rilasciare dichiarazioni razziste imbarazzanti ed ancora prima di picchiare la sua compagna - ma questa è un'altra storia.) Questo film ha una canzone di punta dedicata al libro di Rushdie, una parte del romanzo è stata usata come testo ed è degli U2 "The ground beneath her feet".
ORA, FINE ANNI '90 INIZIO 2000.
random mode ON.
-1999-
Nel giorno di San Valentino del 1989, Vina Apsara, cantante rock dalla voce irresistibile, scompare in Messico durante un terremoto. A partire da questo evento Salman Rushdie torna indietro di qualche decennio per ripercorrere la storia di Vina e Ormus Cama, lo straordinario musicista che più volte l'ha perduta e ritrovata. La loro è la storia di un amore che li insegue per tutta la vita, e anche dopo.
"...perché coloro che danno valore alla stabilità, che temono la transitorietà, l’incertezza, il cambiamento, hanno eretto un potente sistema di biasimo e di tabù contro quella forza dirompente e associale che è l’esistere senza radici, in modo che in gran parte ci conformiamo, fingiamo di essere spinti da una lealtà e da una solidarietà che non sentiamo veramente, nascondiamo le nostre identità segrete sotto la pelle falsa di quelle identità che portano il sigillo di approvazione degli appartenenti. Ma la verità trapela nei nostri sogni; da soli nei nostri letti (perché siamo tutti soli di notte, anche se non dormiamo da soli), ci innalziamo, voliamo, fuggiamo. E in quei sogni ad occhi aperti che la nostra società ci permette, nei nostri miti, nelle nostre arti, nelle nostre canzoni, celebriamo i non appartenenti, i diversi, i fuorilegge, i pazzoidi. Ciò che non permettiamo a noi stessi, paghiamo fior di lire per guardare, al teatro o al cinema, o di leggere tra le copertine segrete di un libro. Il vagabondo, l’assassino, il ribelle, il ladro, il mutante, l’emarginato, il delinquente, il diavolo, il peccatore, il viaggiatore, il mafioso, il fuggitivo, la maschera: se non riconoscessimo in loro le nostre esigenze meno realizzate, non li reinventeremo volta dopo volta, in ogni posto, in ogni lingua, in ogni tempo. Una volta inventate le navi ci siamo precipitati al mare, attraversando gli oceani in barche di carta. Una volta inventate le automobili abbiamo imboccato la strada. Una volta inventati gli aeroplani abbiamo spiccato il volo verso gli angoli più lontani del pianeta. Ora bramiamo il lato oscuro della luna, le pianure rocciose di Marte, gli anelli di Saturno, le profondità interstellari. Mandiamo fotografi meccanici in orbita, o in viaggi a senso unico verso le stelle, e piangiamo alle meraviglie che trasmettono; siamo annichiliti dalle immagini imponenti di galassie lontane immobili come colonne di nuvole nel cielo, e diamo nomi alle rocce aliene, come se fossero i nostri animali domestici. Languiamo per l’alterazione dello spazio, per l’orlo esterno del tempo. E questa è la specie che si illude che ama stare a casa, che ama cingersi con – come si chiamano di nuovo? – legami. Così lo vedo io. Non c’è bisogno di darmi ragione. Forse non siamo così tanti, in fondo. Forse siamo dirompenti, asociali e dovremo essere allontanati."
Cosa realmente resta del nostro antico e mirabile impero?
Uno scherzo del tempo, una perpetua illusione di un amore che prima o poi rifiorirà ma non ha nemmeno il tempo di porsi delle domande e che non ha intenzione di convivere con i problemi reali.
La paura di riprendersi l’umanità che sembra scioperare per cause perse, il senso di alienante solitudine davanti ai problemi del quotidiano, il mancato abbraccio di una madre un tempo severa ora totalmente assente.
Cosa resta realmente a questa madre malata di Alzheimer?
Sembra aver dimenticato ogni insegnamento ed ogni principio, doppia accezione non del tutto casuale: sembra infatti aver dimenticato soprattutto l’inizio, il punto di partenza ed essere miope, sfocato è l’arrivo.
Un punto lontano ci sembra ancora l’unico modo per andare avanti, uno sguardo verso un futuro che non potremo goderci se non parzialmente, ricordandoci il lungo ed infernale tragitto che abbiamo compiuto. È del tutto inutile appoggiarsi a patriottismi ed ideali tricolori se su quella bandiera ogni giorno spendiamo parole gravi: importanti e pesanti come i problemi che oggi ci sfidano.
Sfidano la nostra integrità ed il nostro bisogno di sentirci qualcosa e qualcuno in una società che sembra non avere più bisogni ma solo scarti di cui liberarsi.
Quindi dove sono le antiche gesta?
Sono rimaste nei triclini dorati davanti ai quali donne sagaci ballano per ottenere un posto in paradiso (dimenticandosi che vivranno in un inferno morale ben peggiore), sono rimaste nelle captatio benevolentiae, prive di quel lustro e di quella conoscenza che ha reso la nostra patria culla di parole così grandi e così indimenticabili, sono rimaste nelle telefonate in cui si organizza un furto allo Stato (magari durante una calamità di dimensioni epocali) solo per pagarsi un auto più grande - ma uomini così piccoli cosa se ne fanno di automobili così grandi? - o una vacanza rilassante, oppure una casa sempre più bella e centrale, solo per invitare persone sudicie, tanto vale non impegnarsi nelle pulizie di queste case, direte voi.
Quelle belle parole grandi e roboanti che oggi sfilano in corteo scritte con bombolette e pennarelli indelebili (a quanto pare solo su superfici inorganiche), parole che spesso perdono il loro senso per ritornare a simboleggiare immagini che abbiamo dimenticato a memoria.
“La libertà che guida il popolo” di Eugène Delacroix svetta dalle barricate, trascinando con sè la rivolta sociale del 1830 / una rivolta di pochi, diciamo i pochi borghesi, che col tempo dimenticarono i veri bisogni del popolo / oggi la vediamo sfoderata durante le campagne presidenziali francesi, trasformandone il contenuto alto-allegorico in un cartellone pubblicitario elettorale di poco respiro e dalla memoria corta. “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, opera inaugurante già con la sua data di creazione 1901 e prima tela esposta agli occhi dei visitatori nel museo del '900 a Milano, adottato dalla ramo sinistro di una politica che si arrampica su vecchie scale (dalle quali facilmente cade senza poi cambiare i pioli). Quanta storia in un cartellone pubblici-identitario, una massa indefinita di lavoratori in cammino: tre sono i protagonisti che sembrano ondeggiare verso di noi, la donna si lamenta e ci sembra di sentire le sue parole di disappunto / quel tono accentato in finale che è tipico di una lamentela femminile/ mentre i due uomini passeggiano, determinati, senza nemmeno voltarsi ad ascoltarla, è la rappresentazione oggettiva e determinata di uno sciopero, non notiamo accenni di protesta violenta né esasperata rassegnazione, abbiamo il massimo del realismo sociale, un realismo a tratti educativo ed informativo.
Bene.
Piccolo cameo.
Aveva ragione Giorgio Bocca nel criticare duramente e con pessimismo gli italiani: sicuramente esagerava dicendo "la maggioranza degli italiani è fascista" ma evidenziava un livello di profonda immaturità democratica, di disprezzo per la libertà, un fascismo che si attacca alle istituzioni, allo Stato ( ne sono memoria le stragi, il terrorismo, la mafia, la P2) insomma *mai scherzare con un italiano* e *io non vedo, non sento, non parlo* battute tra amici, ma forse anche no.
Dobbiamo esercitare la memoria antica e quella più recente per non dimenticare mai ed avere il coraggio e la forza di essere la differenza e di essere di parte, sempre e senza vergogna, forse con una manciata di paura, per costruire il futuro che noi e i nostri figli meritiamo e meriteremo.
Quali sarebbero le posizioni attuali dell'arte italiana?
Bisogna andarle a trovare a Kiel, nel nord della Germania, dove un gruppo di collezionisti e curatori si occupa di promuovere e premiare (finalmente) l'arte giovane italiana nei suoi molteplici mezzi espressivi.
#soprattutto a quelli che non sono ancora veramente riusciti ad attirare verso di sé l'attenzione della critica e del pubblico, la possibilità di raccogliere, attraverso la presentazione della loro opera all'estero, un consenso e un'approvazione che possano poi riflettersi sulla loro posizione in Italia e sull'attenzione che viene loro tributata negli ambienti artistici italiani#
Sedici artisti, otto donne e otto uomini che spaziano dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al video, dalla performance alla creazione 3D, una rappresentazione dell'Italia che non esclude nemmeno la suddivisione regionalistica: abbiamo artisti di Roma, Bologna, Genova, Torino, Napoli, Sud Tirolo...
Sicuramente i criteri non hanno fatto conto dei soliti nomi noti dell'arte italiana, bensì hanno filantropicamente cercato una rappresentazione dell'Italia nelle sue principali biforcazioni e nelle sue tematiche.
Sotto la presidenza del collezionista d'arte e del fondatore della Fondazione VAF, Volker W. Feierabend, cittadino tedesco, ma milanese di adozione, una giuria internazionale formata da direttori di importanti musei tedeschi e austriaci, ha selezionato questi sedici artisti: Francesco Arena, Veronica Botticelli, Giulia Caira, Aron Demetz, Marianna Ferrato, Luigi Gariglio, Michele Manfellotto, Marzia Migliora, Simone Pellegrini, Luana Perilli, Donato Piccolo, Mariagrazia Pontorno, Moira Ricci, Rosy Roxy, Vincenzo Rulli, Massimiliano Zaffino.
Non è da tutti aver conosciuto Truciolo ma almeno uno come lui nella vostra vita l'avete sicuramente incontrato e difficilmente siete riusciti ad allontanarlo.
Riabilitando la memoria di un libro sopra le righe cito le ultime pagine di questo capolavoro (Truciolo di Sandor Màrai), sicuramente un libro difficile da accogliere nella propria libreria, tanto quanto è difficile per il protagonista accettare in casa propria questo cane selvaggio e rozzo, estraneo ad ogni tipo di educazione e rispetto umano. Credo diversamente da questa recensione (che allego con rispettivo link) che Truciolo sia un pretesto per raccontare in maniera del tutto egoistico - superficiale #profondamente superficiale come diceva Andy Warhol# il genere umano ed in questa impresa titanica Màrai sia riuscito a farsi amare e ad amare lui stesso ciò che violentemente lo scuote e lo irrita: parliamo di disordine e ribellione, odio che fa digrignare di denti, rifiuto di ogni regola ed insegnamento.
Ecco la riflessione finale del protagonista/scrittore.
"Forse ho sbagliato, non mi sono comportato abbastanza da padrone con te, con l'autorità che prescrivono i dotti manuali e gli esperti; forse è vero che con gli esseri viventi bisogna per forza attenersi a regole rigide, e ricorrere a sferze e ad accalappiacani. Se davvero è così, non ne voglio sapere. Non capisco niente di questo mondo. Va' e vivi come meglio puoi, e ribellati ogni volta che vuoi.
[...]
Lasciamo Truciolo in questo momento un po' troppo denso di commozione e retorica. Avrà un destino di cane alquanto volgare, un destino pieno di complicazioni, di situazioni ridicole e tragiche; ma ormai è una faccenda che riguarda soltanto questo essere insignificante, e sarebbe inopportuno tediare ulteriormente il lettore con vicende private di bassa lega.
[...]
Truciolo è solo una pallida larva nella memoria di chi resta.
[...]
La buonanima aveva fama di essere un cane infido; nel quartiere Krisztina ci sono ancora dei vecchi che si ricordano di lui. In casa, il suo posto già da tempo è stato occupato da un nuovo cane, che ha ereditato il guinzaglio e la museruola dello sfrattato; si chiama King Jimmy, ha il pelo candido, è schifiltoso e mansueto, è un discendente dell'antichissima razza degli spitz finlandesi, preferisce camminare su due zampe, risponde a vari nomi, è buono e obbediente.
[...]
In una parola è la bontà personificata, l'incarnazione di tutte le più nobili virtù. E' quasi impossibile non amarlo. A volte, il signore si chiede stupito perché non riesca proprio ad amarlo; e perché mai, quando gli torna in mente Truciolo, sente un leggero colpo al cuore. Perché prova una sorta di malinconica nostalgia, a dispetto di tutte le cicatrici di cui lui e tutte le persone che vivono in quella casa portano ancora i segni sulle mani?Ha il sospetto che, nonostante tutti i morsi, il fosco ricordo di Truciolo gli sia persino più caro di tutte le qualità del virtuoso e grazioso King Jimmy.Perché, a mano a mano che va avanti, tentoni, nella vita, commettendo un errore dopo l'altro, comprende che non amiamo tanto ciò che è bello, buono e virtuoso, ma piuttosto tutto ciò che è represso, imperfetto, irrequieto, e che protesta digrignando i denti - tutto ciò che non è virtù e accondiscendenza, ma è invece imperfezione e ribellione.Sì, lettore, è una morale da quattro soldi - ma è una verità di cui non si può fare a meno né nella vita né nell'arte, e val bene il moroso di un cane."
- Peccato. Duecento pagine sulla figura di un cane avrebbero potuto lasciare un segno nella letteratura del Novecento, ma avrebbe dovuto scriverle chi avesse amato i cani, non chi li definisce "esseri di bassa categoria", non chi li disprezza perché si sono venduti la libertà "in cambio di una scodella di zuppa", non chi ritiene che dietro l'attaccamento degli uomini verso i cani vi sia "un'abitudine asociale e morbosa che li porta a riversare sull'animale ciò che gli esseri umani sono soliti elargire ai propri simili...". Truciolo è un libro autobiografico. Márai racconta una sua esperienza giovanile. Conclude dicendo che "tutto questo è solo un lontano ricordo". E fortunatamente ha infine un dubbio: "forse non capisco niente di cani, non ci siamo capiti, parlavamo due lingue diverse...". Peccato. Il Márai di Truciolo, il Márai di Braci è uno scrittore che sa farsi ammirare, ma non sa farsi amare. Con Truciolo ha perso una grande opportunità, l'amore di un cane. E noi lettori un'altra grande opportunità, quella di un grande libro. -