mercoledì 26 settembre 2012

IMMAGIN[aria]: breve storia del mio adattamento all’orrore fotografico del quotidiano


La foto mi colpisce se io la tolgo dal suo solito
bla-bla: tecnica, realtà, reportage, arte, ecc.
Non dire niente, chiudere gli occhi, lasciare che il
particolare risalga da solo alla coscienza affettiva. 
Roland Barthes


Non ho intenzione di annoiarvi malamente commentando le fotografie dei vostri quotidiani, non ho intenzione di citare eventi storici di cui avete le orecchie e gli occhi pieni.
Non ne ho intenzione ma lo farò.
Ciò che ha portato la primavera araba ad assomigliare ad un autunno improvviso non è di mia competenza diretta, ma il vento freddo che ha portato con sé ricorda tante correnti d’aria che ho vissuto in soli 25 anni ed ancora fatico a commentare: l’apparenza di una libertà che pare aver scatenato ciò che separava la civiltà dal fondamentalismo e l’occupazione friendly(quale occupazione può definirsi friendly?) dall’oppressione sanguinaria. Ciò che voglio invece affrontare di questa notizia è il suo trattamento estetico e le fotografie che ho osservato sulle prime pagine dei quotidiani: un uomo apparentemente sveglio ma frastornato vestito con unafruit bianca e un paio di pantaloni eleganti, sorretti da una cintura che pare di pelle. La maglietta bianca scopre un torace bianco, più pallido dell’incarnato del soggetto che rimanda al drappo pudico inserito nelle pale d’altare e ricorda l’utilizzo di questo per il trasporto del corpo dei martiri (ma nella fotografia ha perso il suo candido colore iniziale e tende ad un grigio usurato). Non abbiamo davanti a noi la figura di un bracciante o un lavoratore stagionale bensì un uomo che probabilmente ha preso il sole unicamente in viso perché porta camicie o completi. L’immagine mi colpisce per due particolari: il colore violaceo delle labbra pare espandersi dalle medesime verso il viso, come una macchia di colore, tanto da rendere l’espressione del volto particolarmente fastidiosa da fissare, in aggiunta, una ciocca di capelli, nell’immagine non ingigantita delle prime pagine di giornale, inganna tanto da far pensare ad un colpo inferto alla testa mentre in realtà è solo parte della pettinatura che è calata sul volto. L’uomo che lo trasporta, ed è lo stesso che riconosciamo in più fotografie, regge con la bocca un vecchio modello di telefonino mentre tenta, plausibilmente (o forse l’impressione è sbagliata), di portare il corpo lontano dal pericolo. Questa persona ha un tipico abbigliamento che noi, italioti predisposti ad una certa capacità stilistica genetica, ereditata da anni di alta moda, riconosciamo: l’aiutante indossa un’improbabile maglietta di una squadra sportiva calcistica ed un paio di pantaloni che difficilmente si coordinano, si tratta di bermuda verdi a righe bianche abbinati a un’infradito bianca. Svettano in primo e secondo piano le gambe di altri aiutanti, tutte vestono jeans ed i piedi che possiamo scrutare calzano ciabatte di ogni tipo e pantofole: non siamo sicuramente in presenza di un abbigliamento anti sommossa o protettivo. Terminando, noto che la base della fotografia è un pavimento in semplici mattoni autobloccanti del tutto identico a quello del mio cortile.
È un’immagine che parla direttamente al nostro inconscio e crea una sorta di“tuttialriparo” immediato: quello che mi accade nell’immediato, dopo una visione di questo tipo, è una ricerca disperata, mi scopro a rovistare tra gli scatoloni, rovescio le buste ed i quaderni, apro i cassetti e le ante degli armadi, sbuffo tra la polvere.
Devo forzatamente trovare qualcosa che mi renda questa visione accettabile. Ricordo nitide le pagine scritte da Susan Sontag riguardo alla prima visione delle fotografie-testimonianza dell’Olocausto: la sua vita sarebbe cambiata per sempre.
Molte immagini hanno cambiato la mia vita: le prime immagini pornografiche nascoste sotto le riviste di gossip dal giornalaio di fiducia, le immagini dei libri di storia sfogliate durante le spiegazioni dell’insegnante, i viaggi della memoria ed il Museo Cervi, i telegiornali ed i quotidiani degli anni di piombo, senza tanti vezzi e pudicizie, le fotografie di guerra e i reportage dell’estrema povertà, i malati di Aids di Nan Goldin. Ciò che ho guadagnato col tempo è un adattamento ed un allenamento della visione: quella t-shirt bianca, quel drappo cinereo, le braccia tese ed il gesto del trasporto segnano il culmine della tensione e dell’incertezza, il dramma si svolge e prosegue mentre l’immagine diventa già statica, prelevata dal flusso come fosse un pesce estratto dal fiume.
Se la fotografia vuole essere un messaggio, ciò che mi dice è duplice e impenetrabile, nonostante questa immagine mi faccia credere di favorirmi nella comprensione, quello che veramente accade è una coscienza estetica ed un distacco emotivo. “Ma le fotografie non spiegano: constatano.”[1] Non so nulla di questa fotografia trasmessa a tutti i media internazionali, questa immagine non sintetizza unicamente la tensione mediorientale e la violenza che ne è alla base, ma ha anche una somiglianza inconscia con Il trasporto del Cristo morto di Raffaello. Il corpo centrale della pala d’altare è di forte impatto drammatico, ed il tema stesso lo è, questo pathos prende vita nello sforzo fisico del trasporto di un corpo pesante e profondamente carnale e terreno. Ho paura delle fotografie perché hanno, alla pari dei quadri, una composizione seducente, tanto – e a mio malgrado – da essere capaci di abbellire ogni cosa. 
Anche il terrore puro e le sue gesta.


Raffaello Sanzio, Deposizione di Cristo, 1507, Olio su tavola, cm 174,5x178,5
COURTESY GALLERIA BORGHESE



Chris Stevens, l’ambasciatore americano in Libia ucciso l’11 settembre scorso


Articolo pubblicato su The ArtShip #9 Ottobre 2012
di Claudia Balzani

martedì 11 settembre 2012

TENTATIVO di #ESAURIMENTO di UN LUOGO definito #MONDO



Alla stessa maniera dello scrittore Georges Perec mi sono seduta di fronte al computer ed ho osservato per più di tre giorni le fotografie delle vacanze degli utenti, amici, pseudo conoscenti e personaggi su facebook, twitter ed instagram.


Ho aumentato l’offerta della ricerca interessandomi anche a pinterest, una novità delle bacheche di condivisione del tutto intuitiva creata nell’ottobre 2011 e già nelle top ten di tutto il mondo.

Proprio questo social network si propone come sostituto delle porte e delle pareti delle nostre camere da adolescenti, le immagini sono appiccicate sulla bacheca virtuale in un susseguirsi di messa a fuoco dell’occhio attento del visitatore. Non posso, come storica dell’arte, far altro che sfogliare la mia bacheca mentale (organica e non informatica) ed estrarre il grande atlante di Aby Warburg, un immenso ed infinito -poiché pensato come tale- atlante di immagini dell’umanità, legate fra sé dall’energia creativa umana: parliamo delle basi della cultura europea e della sua stessa memoria.

Fu infatti Mnemosyne[1] il nome di questo ambizioso progetto presentato nel 1929 presso la Biblioteca Hertziana di Roma. “L’immagine è il luogo in cui più direttamente precipita e si condensa l’impressione e la memoria degli eventi. Dotate di un primordiale potere energetico di evocazione, in forza della loro vitalità espressiva le immagini costituiscono i principali veicoli e supporti della tradizione culturale e della memoria sociale, che in determinate circostanze può essere riattivata e scaricata. Nell’Atlante la giustapposizione di immagini, impaginate in modo da tessere più fili tematici attorno ai nuclei e ai dettagli di maggior rilievo, crea campi di energia e provoca lo spettatore a innescare un processo interpretativo aperto: la parola all’immagine.”[2] L’utente ignaro non sa di partecipare ad un progetto ambizioso e storico-culturale, queste immagini, queste scelte, questi cinguettii virtuali sono la nostra scrittura nelle caverne: non bisogna avere alcun tipo di assolutismo nella distinzione tra ciò che è funzione e ciò che è struttura in una società mobile ed aperta come la nostra.

Per questo la fotografia (ed in questo caso non sto parlando del mezzo ma della funzione) controbatte alla stessa domanda da ormai due secoli: rappresentarci, mostrare chi siamo e cosa facciamo, registrare il nostro tempo nello spazio, miniaturizzare i nostri momenti e consegnarceli come feticcio. Osservando le fotografie pubblicate sui maggiori social network e soffrendo di miopia verso l’esagerato fenomeno del paesaggismo da immagine da cartolina, ho notato una corrente verso la quale molti utenti scorrono o meglio vanno ad abbeverarsi: l’immagine intimista, il reperto trovato in strada, il muro sbriciolato, il colore dello smalto sui piedi, la linea di un cappello e l’ombra che ne consegue.

Un’ondata (per continuare la metafora) d’immagini che non avremmo mai mostrato nel buio del nostro salotto assieme alle diapositive delle vacanze davanti agli amici di sempre eppure oggi sono queste le immagini alle quali siamo sottoposti, pur non ritenendoci gli amici di sempre o addirittura non conoscendoci.

Si fa banchetto di sé, ci si aggrappa al click del fotofonino per fermare ciò che resta del tempo, per catturare il respiro delle cose, come un flaneur del ventunesimo secolo attento a ciò che succede quando non succede (apparentemente) nulla. Nel 1975 Georges Perec, grandioso esponente dell’OuLiPo.[3], pubblicò “Tentativo d’ esaurimento di un luogo parigino” questo libricino ha la pretesa di essere una registrazione di ciò che i suoi occhi hanno visto durante quattro giorni passati tra place Saint-Sulpice e il tavolino di un bar; più che uno scorrere di immagini questo libro costringe a pensare ad un tentativo di aggrapparsi alle lancette dell’orologio con tutta la forza che si ha, un tentativo di combattere questo fluire con uno scorrere differente, quello delle parole.

Ma già il titolo è una premonizione: questo è solo un tentativo poiché pare impossibile esaurire uno spazio nella sua fisicità e temporalità. Noto oggi nelle fotografie intimiste, accennate in precedenza, questa stessa rinuncia a priori di una visione più larga e meno avvolgente, una rinuncia che non classifica più “ciò che succede quando non succede nulla” come un’eccezione, anzi, di questo nulla fa tesoro e proposta verso una minuzia ed una tensione tipica della visione attuale.

Contro ogni critica ed involuzione queste nuove generazioni di utenti virtuali, figlie di un marketing senza religione, provate da anni di consumismo di cui essi stessi sono la creazione finale, mostrano una tendenza auto celebrativa e intimista, a sprazzi pubblicitaria e patinata, tendente alle grandi ricerche ora classificate come vintage. Inghiottiti da un vortice di icone, pixel e continue trasformazioni vivono i progressi della scienza con lo stupore e l’adattamento immediato, ogni scoperta viene assimilata e fatta propria: la conoscenza delle strutture ci distanza dalla generazione dei nostri nonni (e spesso già da quella dei nostri genitori) come fossimo colonizzatori rispetto ad un popolo di aborigeni. Ma queste strutture vertono su funzioni e software di vecchissima datazione: le immagini infatti hanno lo stesso potere e la stessa energia delle scritte rupestri ed il loro utilizzo funziona ad oggi come una traccia di sé.

Ed io delle mie vacanze voglio lasciare solo la mia ombra sulle strade di Matera, un calice di vino in piazza a Bologna e qualche vestito appeso al mio armadio: salvo tutto questo sotto la cartella giusta ed il mio atlante per ora è aggiornato.






[1] Nel 1929 tenne alla Biblioteca Hertziana di Roma la conferenza su Mnemosyne, esponendo il progetto di un atlante illustrato, Bilderatlas Mnemosyne, dedicato alle emigrazioni e sopravvivenze delle antiche immagini di divinità nella cultura europea moderna.[2] Tratto da La Rivista di engramma, n.35 agosto–settembre 2004 all 'indirizzo web http://www.engramma.it/engramma_v4/homepage/35/index_atlante.html[3] Acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”.