Essere immagine
nell’era dei social network.
Cerco
disperatamente un’identità e non la trovo.
Poi un giorno
l’illuminazione. Sono a prendere un caffè, sola, mi guardo attorno con gli
occhi delle faine incrociate di notte per strada: una ragazza seduta vicino a
me sta riordinando il tavolo in maniera quasi maniacale, tazzina e cucchiaino,
bustina di zucchero inclinata verso destra, tovagliolino del locale con logo
ben in vista; organizza il suo tavolo come un catering da matrimonio.
Ci risiamo.
Per pochi istanti rivedo le scene strepitose di “Qualcosa è cambiato”, mi trovo
a fianco di una giovanissima affetta da disturbo ossessivo - compulsivo, ecco
che ho trovato un’amica.
Invece no.
Semplicemente
si prepara a scattare una fotografia con il suo smartphone.
Se non posti
non esisti.
L’evoluzione
della fotografia con l’arrivo del pixel non sarà il tema di quest’articolo; non
parlerò né di perdita del referente né di sali d’argento tantomeno di falsa
rivoluzione del digitale. Bensì di una rivoluzione ben più importante che sta
cambiando il nostro modo di comunicare e di esistere nel mondo della
condivisione.
Ogni giorno
osservo ragazzi e ragazze scattare fotografie del tutto autoreferenziali dai
loro cellulari: scarpe allacciate, unghie smaltate, smorfie pressoché uguali e
ripetitive, segni di riconoscimento che scorrono come un flusso perpetuo di una
comunicazione fine a se stessa. È una comunicazione immediata, fotografie cometa la cui scia dura i
pochi minuti della condivisione per poi avvolgersi e rinchiudersi in una
cartella - fotografie bacheca – che non verrà più aperta e raggiungerà il
numero di scatti (quasi) infinitamente proporzionale agli eventi effimeri della
nostra quotidianità.
La nuova
condivisione è basata su un culto per la citazione e il richiamo dei grandi
esperimenti fotografici: la polaroid, il vintage/Lomo, la sfocatura lineare o
radiale per una maggiore profondità di campo. L’idea principale è la
trasformazione della realtà visibile ai nostri occhi in un’elaborazione
artistica delle sue parti. Queste fotografie funzionano come un linguaggio elementare
ed appena abbozzato: un richiamo rapido di attenzione, un urlo di breve durata
che si spegne in pochi istanti.
Queste
immagini, dicevamo, hanno un’esistenza passeggera
quanto la scia di una cometa, ma (proprio) gli istanti di visione sono un lampo in una notte serena:
commenti, visualizzazioni, like e
condivisioni. La vita nella rete sociale si trasforma nell’aforisma di Andy Warhol “In
futuro tutti saranno famosi per 15 minuti” ed è il grado zero della condivisione (non
esiste selezione né conservazione di queste immagini se non direttamente nelle
piattaforme dei social network).
Il più
importante programma di photo sharing,
Instagram, compare il 6 ottobre del
2010 ed esattamente un mese fa superava la
soglia dei 50 milioni di utenti, proprio mentre la piattaforma stava per essere acquistata da Facebook. L’immagine di oggi funziona
secondo la nota locuzione latina hic et nunc,
suggerisce la fragilità della nostra contemporaneità, la percezione di uno
spazio ed un tempo non più infiniti.
La sensazione
è quella di scorrere nel presente come da uno scivolo oleato, in cui si aggrappa con le mani a ciò che resta saldo,
ovvero solo la struttura: a quale desiderio risponde questo flusso di immagini
immediatamente condiviso?
Sono
emozioni e desideri della propria intimità: l’ampliamento del raggio, permesso
dalla condivisione e dalla globalizzazione, ci ha condotti ad uno sguardo
intimo ed individualista. In queste immagini, infatti, notiamo ben poco del
reportage bensì un rivolgimento dello scatto opposto: si scatta verso se stessi
e la finestra sul cortile si trasforma in un microscopio puntato sulla nostra
pelle, il nostro mondo organico viene perlustrato ed esposto al pubblico
ludibrio minuto dopo minuto.
Si ottiene in
questo modo una semplificazione dello schema a tre elementi barthesiano: operator, spectator e spectrum si
fondono nell’utente medio del mondo della condivisione.
Ci
inquadriamo, scattiamo e ci osserviamo gettati nel flusso (sempre aggiornato)
del nostro social network: è una
soddisfazione istantanea dell’Ego con la quale non mi specchio più in uno
stagno ma mi affaccio con la mia ingombrante presenza in un mondo dove la mia
stessa immagine sfugge al mio controllo. Come sottolinea Michele Smargiassi, giornalista e fotocrate, queste immagini non producono più una relazione bensì una dispersione; spieghiamoci meglio, le fotografie assolvono
ancora il loro compito di elaborazione e costruzione del sé ma i veri destinatari
di questo prodotto finale non sono semplici utenti ma persone che io non
conosco direttamente. Scissa dal proprio referente umano la mia immagine vive
di vita propria e diventa ben più visibile del suo referente organico ovvero me
stesso per diventare “veicolo della dispersione entropica di un ego
artificiale”. Nella trasformazione della fotografia da opera a performance
divento l’attore protagonista, travolto dall’ansia della mia società
contemporanea.
Sicuramente
non sbagliano i curatori del Museo Alinari di Firenze nel proporre nell’ultima
stanza del museo della fotografia il primo fotofonino della storia (2001): un Nokia
7650. Da non sottovalutare la data di creazione e la struttura del “reperto”; proprio
Stanley Kubrick nella sua premonizione filmica[1]
donò ai primi ominidi un monolite nero dotato di conoscenza che, nello sviluppo
della pellicola, assumeva differenti valenze: una divinità, un extra –
terrestre, il primo mattone dell’Universo.
Che sia
davvero questo fotofonino l’essenza del nostro Universo?
Nel dubbio posto una foto.
di Claudia Balzani, pubblicato su The Art Ship di Luglio.
http://theartship.it/home/dlyaivxy/public_html/
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