venerdì 22 giugno 2012

DATEMI IL MIO QUARTO D'ARIA.


Essere immagine nell’era dei social network.


Cerco disperatamente un’identità e non la trovo.
Poi un giorno l’illuminazione. Sono a prendere un caffè, sola, mi guardo attorno con gli occhi delle faine incrociate di notte per strada: una ragazza seduta vicino a me sta riordinando il tavolo in maniera quasi maniacale, tazzina e cucchiaino, bustina di zucchero inclinata verso destra, tovagliolino del locale con logo ben in vista; organizza il suo tavolo come un catering da matrimonio.
Ci risiamo. Per pochi istanti rivedo le scene strepitose di “Qualcosa è cambiato”, mi trovo a fianco di una giovanissima affetta da disturbo ossessivo - compulsivo, ecco che ho trovato un’amica.
Invece no.
Semplicemente si prepara a scattare una fotografia con il suo smartphone.
Se non posti non esisti.
L’evoluzione della fotografia con l’arrivo del pixel non sarà il tema di quest’articolo; non parlerò né di perdita del referente né di sali d’argento tantomeno di falsa rivoluzione del digitale. Bensì di una rivoluzione ben più importante che sta cambiando il nostro modo di comunicare e di esistere nel mondo della condivisione.
Ogni giorno osservo ragazzi e ragazze scattare fotografie del tutto autoreferenziali dai loro cellulari: scarpe allacciate, unghie smaltate, smorfie pressoché uguali e ripetitive, segni di riconoscimento che scorrono come un flusso perpetuo di una comunicazione fine a se stessa. È una comunicazione immediata, fotografie cometa la cui scia dura i pochi minuti della condivisione per poi avvolgersi e rinchiudersi in una cartella - fotografie bacheca – che non verrà più aperta e raggiungerà il numero di scatti (quasi) infinitamente proporzionale agli eventi effimeri della nostra quotidianità.
La nuova condivisione è basata su un culto per la citazione e il richiamo dei grandi esperimenti fotografici: la polaroid, il vintage/Lomo, la sfocatura lineare o radiale per una maggiore profondità di campo. L’idea principale è la trasformazione della realtà visibile ai nostri occhi in un’elaborazione artistica delle sue parti. Queste fotografie funzionano come un linguaggio elementare ed appena abbozzato: un richiamo rapido di attenzione, un urlo di breve durata che si spegne in pochi istanti.
Queste immagini, dicevamo, hanno un’esistenza passeggera quanto la scia di una cometa, ma (proprio) gli istanti di visione sono  un lampo in una notte serena: commenti, visualizzazioni, like e condivisioni. La vita nella rete sociale si trasforma nell’aforisma di Andy Warhol “In futuro tutti saranno famosi per 15 minuti” ed è il grado zero della condivisione (non esiste selezione né conservazione di queste immagini se non direttamente nelle piattaforme dei social network).
Il più importante programma di photo sharing, Instagram, compare il 6 ottobre del 2010 ed esattamente un mese fa superava la soglia dei 50 milioni di utenti, proprio mentre la piattaforma stava per  essere acquistata da Facebook. L’immagine di oggi funziona secondo la nota locuzione latina hic et nunc, suggerisce la fragilità della nostra contemporaneità, la percezione di uno spazio ed un tempo non più infiniti.
La sensazione è quella di scorrere nel presente come da uno scivolo oleato, in cui si aggrappa con le mani a ciò che resta saldo, ovvero solo la struttura: a quale desiderio risponde questo flusso di immagini immediatamente condiviso?
Sono emozioni e desideri della propria intimità: l’ampliamento del raggio, permesso dalla condivisione e dalla globalizzazione, ci ha condotti ad uno sguardo intimo ed individualista. In queste immagini, infatti, notiamo ben poco del reportage bensì un rivolgimento dello scatto opposto: si scatta verso se stessi e la finestra sul cortile si trasforma in un microscopio puntato sulla nostra pelle, il nostro mondo organico viene perlustrato ed esposto al pubblico ludibrio minuto dopo minuto.
Si ottiene in questo modo una semplificazione dello schema a tre elementi barthesiano: operator, spectator e spectrum si fondono nell’utente medio del mondo della condivisione.
Ci inquadriamo, scattiamo e ci osserviamo gettati nel flusso (sempre aggiornato) del nostro social network: è una soddisfazione istantanea dell’Ego con la quale non mi specchio più in uno stagno ma mi affaccio con la mia ingombrante presenza in un mondo dove la mia stessa immagine sfugge al mio controllo. Come sottolinea Michele Smargiassi, giornalista e fotocrate, queste immagini non producono più una relazione bensì una dispersione; spieghiamoci meglio, le fotografie assolvono ancora il loro compito di elaborazione e costruzione del sé ma i veri destinatari di questo prodotto finale non sono semplici utenti ma persone che io non conosco direttamente. Scissa dal proprio referente umano la mia immagine vive di vita propria e diventa ben più visibile del suo referente organico ovvero me stesso per diventare “veicolo della dispersione entropica di un ego artificiale”. Nella trasformazione della fotografia da opera a performance divento l’attore protagonista, travolto dall’ansia della mia società contemporanea.
Sicuramente non sbagliano i curatori del Museo Alinari di Firenze nel proporre nell’ultima stanza del museo della fotografia il primo fotofonino della storia (2001): un Nokia 7650. Da non sottovalutare la data di creazione e la struttura del “reperto”; proprio Stanley Kubrick nella sua premonizione filmica[1] donò ai primi ominidi un monolite nero dotato di conoscenza che, nello sviluppo della pellicola, assumeva differenti valenze: una divinità, un extra – terrestre, il primo mattone dell’Universo.
Che sia davvero questo fotofonino l’essenza del nostro Universo?
Nel dubbio posto una foto.

di Claudia Balzani, pubblicato su The Art Ship di Luglio.
http://theartship.it/home/dlyaivxy/public_html/ 





[1] 2001 Odissea nello Spazio

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